Per la conclusione della Pride Week abbiamo intervistato Francesca Vecchioni. Donna, madre, presidente di Diversity Lab e lesbica.
Come è nato il progetto di Diversity Lab?
È un’associazione no profit che però lavora attraverso i media. È nato dalla voglia di fare qualcosa per abbattere i pregiudizi, così abbiamo cercato un modo per cambiare le cose attraverso il semplice atto di comunicare. Volevamo lavorare cercando di sensibilizzare il mondo della comunicazione facendo in modo di far vedere la realtà. Ne fanno parte docenti universitari provenienti da 9 atenei differenti con lo scopo di far passare quei messaggi che altrimenti rimarrebbero chiusi nelle aule e trasformarli in progetti di comunicazione per arrivare a più persone. Abbiamo tre settori: ricerca, comunicazione e formazione. Formiamo sia aziende che privati e collaboriamo con le scuole per combattere il bullismo e altri tipi di discriminazione.
Quanta responsabilità nell’essere Francesca Vecchioni?
Molta, ma quella più grande era in quanto Francesca perché la mia responsabilità è quella che può avere una persona con un altro cognome o nome, uno studente, un professore, un sindaco, un dottore. Ognuno ha un ruolo nella società, ognuno è responsabile.
Perché per un’azienda è giusto collaborare con voi?
Perché non bisogna aver timore di parlare. Alcuni pensano sia una cosa personale, invece non lo è. La discriminazione si ha per il 50% sul luogo di lavoro. Il fatto di non essere se stessi, quando si è costretti ad indossare una maschera, comporta uno sforzo energetico non indifferente per la persona. Anche una piccola cosa come nascondere con chi si trascorre il weekend. La verità è che molte persone non pensano ci sia questo problema o comunque lo sottovalutano perché è una cosa che si può nascondere, mentre non puoi nascondere il fatto di essere donna, uomo o il colore della pelle.
Quante persone omosessuali ci sono nelle aziende? Non abbiamo una risposta precisa, perché molte si nascondono. Non parliamo solo di impiegati, ma anche di amministratori delegati e top manager. Per gli eterosessuali è molto più semplice, nessuno nasconde se va a cena con la propria moglie o con il proprio marito. Non sembra, ma questo ha molto a che fare con l’economia delle aziende. Quando non puoi o non riesci ad essere autentico, questo influenza molto le relazioni in azienda e anche le relazioni in un team e quindi le performance di quel team.
È più un problema femminile o maschile?
È più condannata l’omosessualità maschile per varie ragioni, però il tema del non essere se stessi è uguale sia per gli uomini che per le donne. Se non sei te stesso in un’azienda, non sei te stesso da uomo e non sarai te stessa da donna.
Cosa deve fare un’azienda per rompere questo muro?
Bisogna aiutare le persone a sentirsi parte di un gruppo. Quando si lavora per l’inclusione, lo si fa sia per le tematiche riguardanti l’orientamento sessuale sia per la cultura differente che un persona potrebbe avere. Sono tutti aspetti importanti. Se sei una donna lesbica potresti avere una cultura differente da quella della maggioranza o avere un’età differente. Quello che un’azienda può fare, dipende solo dall’azienda, dagli obiettivi che ha. Lavorare bene sull’inclusione significa lavorare su una gamma più ampia di diversity. Non si può lavorare solo sulle differenze uomo-donna, non si può pensare che ogni diversità sia un argomento che può viaggiare da solo.
Quindi per rompere il muro bisogna parlarne sia all’interno che all’esterno dell’azienda. Perché se sei favorevole ad abbattere ogni tipo di diversità, ma non lo comunichi è come dire ai tuoi dipendenti che ti vergogni, invece non bisogna vergognarsi. È un po’ come quando una madre o un padre si vergognano del proprio figlio/a.
Quant’è cambiata la situazione degli omosessuali in Italia negli ultimi 10 anni?
È cambiato molto per una convergenza di vari effetti. Il mondo sociale è molto più consapevole, le persone sono molto più interessate alle tematiche di discriminazione, alle minoranze e a tutto quello che è correlato. Si è più attenti, a abbiamo ancora un po’ di strada da fare.
Ora però parliamo un po’ di cibo.
Hai un ristorante preferito a Milano?
Alice in Porta Garibaldi e la Balera dell’ortica. Molto differenti tra di loro, ma entrambi mi stanno a cuore per differenti ragioni. Uno perché si mangia davvero bene e l’altro perché ha queste tavolate dove ti siedi in compagnia degli amici a mangiare le costolette con le mani.
Qual è il piatto più buono che tu abbia mai assaggiato?
Troppi, ce ne sono troppi. Mi piacciono le orecchiette con le cime di rapa. Sono stata in Puglia una settimana e ho mangiato piatti stupendi. Che poi alla fine anche un panino fatto bene può stupire.
Qual è il piatto più strano che tu abbia mai mangiato?
Il formaggio con i vermi, era buonissimo ma credo che non tutti siano pronti e abituati a mangiarlo.
Qual è il primo sapore che ricordi?
In realtà non è positivo. È la panna che si crea sul latte quando cuoce troppo. Mi da la nausea. Non mi piace. E poi non mi piace l’origano.
L’origano?
Sì, ha un sapore che non mi piace.
Hai una ricetta a cui sei affezionata e che ami cucinare?
Sono affezionata ai colori. Però mi piace cucinare in modo semplice, tipo la pasta al pomodoro e melanzane.
Qual è il consiglio che daresti a te stessa 10 anni fa?
Ho avuto la fortuna di crescere con un carattere forte, ma il consiglio che mi darei è quello di ascoltare di più.